“Cabin crew, prepare for landing!” E’ mezzanotte passata ed il sudicio e malmesso boeing di Air Italy sta per riportarci a casa dopo un lungo volo a conclusione di una pazzesca vacanza trascorsa con la famiglia in Madagascar.
Il viaggio, pianificato per tempo con l’aiuto di Motodaluogo, prevedeva una prima parte a zonzo in catamarano nell’arcipelago di Nosy Be ed una seconda parte con permanenza sull’isola di Sakatia.
E’ qui che Craig Scott aveva fondato Orca, base ideale per raggiungere i pescosissimi banchi al largo nel canale di Mozambico, fino al mitico Castor Bank. Nella sacca sub trovano spazio solo i cannoni. Le aspettative sono grandi.
A sole due settimane dalla partenza la doccia fredda: arriva notizia della morte di Craig Scott.
Troppo tardi per riorganizzare. Il piano di viaggio rimane invariato. Si parte comunque, con la speranza di trovare “in loco” una alternativa.
In crociera
All’aeroporto di Nosy Be troviamo ad attenderci Max Felici, proprietario del meraviglioso eco lodge Ankaroberavina, che ci accompagna a bordo dello sgangherato ma spazioso Ulysses. Decidiamo in modo grossolano un itinerario da seguire per i giorni a venire, gustiamo dei deliziosi granchi al sugo e prendiamo il largo.
I giorni in catamarano trascorrono piacevolmente, in totale relax, godendo delle meraviglie del posto. Ad accompagnarci i dei due membri dell’equipaggio:
- Mark, il cuoco taciturno, che con uno striminzito cucinino ed un barbecue agganciato fuori bordo riesce a fare miracoli. Bonito, tazard, snapper, aragoste… tutto quello che il mare ci regala finisce tra le sue mani e ci viene servito con semplici e gustose ricette. - Justine, il capitano sbruffoncello, che ce la mette tutta per mettermi in acqua nei punti giusti, ma non è mestiere suo! I fondali mediamente sono stracolmi di pesce e, quando capita, tiro qualche schioppettata qua e la, giusto per gradire. Solo una circostanza degna di nota, quando planando su un fondale di una ventina di metri scorgo un cernione che mi osserva di fianco ad una “patata”. Lo punto e mentre mi avvicino lui indietreggia aiutato dal movimento delle pettorali. Arriva il momento, scocco il tiro e l’asta si pianta sul muso del bestione che si contorce. Una, due, tre testate con l’asta che frusta l’acqua ed il terminale viene reciso di netto. Asso triple force da 140! Il pesce si gira e se ne va tranquillo con un metro e 70 cm di acciaio conficcati ad un palmo dalla bocca.
Sakatia
Terminata la crociera veniamo sbarcati sulla spiaggia del Sakatia Lodge. Posto delizioso, cura dei particolari, cucina di livello: gestione italiana. Il bungalow che ci ospiterà è letteralmente in riva al mare, e alla sera è preso di mira dalla colonia di simpatici ma sporcaccioni lemuri che vivono sulla collina che domina la baia. La spiaggia è frequentata solo dai bimbi del villaggio. Nessuno prova ad assalirti per venderti collane e cianfrusaglie varie. Il reef che delimita la baia ci permette di fare snorkeling “davanti casa”. Non una zanzara. Tutto perfetto, ma la pesca?
Parlando con i titolari, subito una triste conferma: dalla more di Craig tutte le attività di pesca sono state sospese. Se le bestemmie servissero a qualcosa, quello sarebbe stato il momento per snocciolarne una buona dozzina. Situazione difficile da descrivere… I familiari sanno quali erano i miei progetti e sento il loro dispiacere. Viste le circostanze non ci rimane altro che continuare a goderci le meraviglie del posto, ma parallelamente parte la ricerca del barcaiolo. Sakatia è un isolotto… diciamo così… “fuori mano”, abitanti semplici, piroghe tante, barche poche e malmesse. Il Lodge ha a disposizione diverse imbarcazioni valide, utilizzate dal locale diving, ma di pescasub neanche a parlarne. Antonine, un francese di base a Nosy Komba, sembra essere l’unica valida alternativa, ma risulterà impegnato per la intera durata del mio soggiorno. Altre barche decenti sarebbero a Nosy Be che è a 10 minuti di navigazione. La strada è tutta in salita. Gli amici pescatori dall’Italia, dal Sud Africa, dalla Tanzania si attivano, i giorni passano, niente. Una tragedia!
Banc rouge – a nascondino con i pesci vela
Il passaparola finalmente porta risultati ed ecco che, dopo qualche confusa telefonata, una fiammante piroga motorizzata 25 hp viene a materializzarsi sulla spiaggia davanti al bungalow alle ore 7 del mattino seguente. Cribbio! Finalmente! A bordo insieme al “capitano” c’è anche una “guida di pesca”. Troppa grazia! Bene, non possiamo permetterci errori, bisogna far capire quello che cerco. Poche parole. I due annuiscono e allargando le braccia con gesti teatrali promettono grossi risultati. Hmmmm!?
Puntiamo verso il largo e la navigazione è leeeeeeeenta, noiooooooosa, ma veramente! Non saprei dire se è trascorsa un’ora e mezza o due. Interminabile. Finalmente l’orizzonte ci offre la sagoma di un paio di barche che, divergenti armati, stanno trainando. Mare forza olio, non una bava di vento. Vestizione e giù in un’acqua lattiginosa. Visibilità 5 metri, forse 6. Non si vede una pinna. Poi accade l’incredibile: mentre cerco di orientarmi con la testa fuori dall’acqua, non molto distante da me credo di notare la dorsale di un pesce vela. Guardo verso la barca in cerca di conferme. Capitano e guida sono in piedi che indicano proprio in quella direzione. Nel frattempo la visione è sparita e torno a brancolare nel blu latte. Vengo richiamato a gran voce dai due compagni accompagnatori che si sono trasformati in vedette, seguo la linea di puntamento dei loro indici e vedo di nuovo la dorsale. Tengo la testa fuori e nuoto in quella direzione. Sono ad una decina di metri e la vela sparisce. Metto la testa in acqua, tengo il fucile teso in avanti. Mi chiamano di nuovo e la scena si ripete, vedo la dorsale, mi avvicino e quando sono a pochi metri il pesce sparisce. Scendo ripetutamente a cercare acqua più limpida, sperando di incuriosire il pesce. Niente. Solo in un’occasione arrivo ad intravvedere una specchiata in lontananza. Una dorsale esce da quella parte, un altro pesce scuffia da quell’altra parte, e la tarantella continua. Tutto questo mentre le due barche continuano a trainare zigzagando tranquillamente a poca distanza, in questo fazzoletto di mare.
Dopo l’ennesimo avvicinamento fallito, stanco, decido di gettare la spugna, faccio per risalire a bordo, mi arrampico sulla piroga, mi volto e vedo distintamente la schiena scura di un pesce di una trentina di chili che mi ha seguito praticamente sottobordo. Questo è troppo, basta! Restiamo una manciata di minuti a motore spento a goderci lo spettacolo di una decina di pesci vela che pigramente nuotano in superficie. Niente di peggio che rientrare con la barca vuota e sulla via del ritorno chiedo di fare due tuffi su una rimonta sotto costa. Una manciata di minuti la cena è assicurata. Per oggi è andata così. Meglio di niente.I ragazzi mi propongono di organizzare una nuova uscita. “Solo se trovate una barca veloce” dico.
“Si può fare? OK. L’appuntamento è per dopodomani”.
Davie – la manna
Finalmente un aiutino arriva dal cielo. Poco prima di ammalarsi Craig aveva preso a lavorare con se un giovane sudafricano, Davie, che rimasto disoccupato si era allontanato dall’isola per farvi ritorno proprio due giorni prima del termine della nostra vacanza.
Ci presentano. Per me l’indomani sarà l’ultimo giorno utile per la pesca, per lui sarà l’ultimo giorno a Sakatia. Io ho la barca prenotata per il mattino dopo, lui ha una manciata di punti salvati su un GPS palmare. Non serve altro.
Al mattino seguente accogliamo festosi una solida lancia di 6 metri con un fiammante 100 hp. Roba da ricchi! Viste le circostanze ci possiamo anche “allargare”: rotta verso il Banc du Serpent.
40 miglia di dura navigazione con mare formato di prua, la linea di terra che scompare all’orizzonte. Sento l’odore del pesce. E’ quello che cercavo. Di tanto in tanto accendiamo il palmare per verificare la correttezza della rotta. Finalmente siamo in zona. La secca del serpente è una lunga dorsale sinuosa che si estende per chilometri, fatta di rimonte che dall’abisso risalgono fino ad una trentina di metri. I punti marcati sullo strumento di Davie sono molti, ma senza l’ausilio di un ecoscandaglio trovare la rimonta giusta, quella con la mangianza, diventa un’impresa. La corrente cambia in funzione delle maree, e solo il versante battuto dalla corrente è pescoso. E’ li che la mangianza si ammassa, è li che si innesca la catena alimentare, ed è li che bisogna tentare le catture. Decidiamo di puntare sul pinnacolo nord. La conformazione del fondale, in quel punto, dovrebbe permetterci di individuare facilmente il “lato buono”. In teoria basta seguire l’orlo della caduta fino a trovare il versante buono.
Filiamo il flasher, una sputacchiata nella maschera a via, in acqua. La visibilità è eccellente, si intravede il fondo. La corrente è sostenuta. Mangianza niente. Poi sotto le pinne diventa tutto blu. Bisogna risalire a bordo e rimontare il pinnacolo per tentare sul lato opposto. Di nuovo in acqua ci alterniamo nelle sommozzate cercando di individuare l’orlo del pinnacolo. Blu sotto di noi. Ancora a bordo ad interrogare il palmare, e di nuovo in acqua a cercare il lato buono della secca. Ecco finalmente la mangianza. Tanta. E’ incredibile, di colpo il mare pullula di vita. Le silhouette inconfondibili degli squali che si staccano dal fondo, salgono ad annusare il flasher, i più sfrontati ci puntano scartando all’ultimo istante. “Chiunque spara per primo, l’altro scende a difendere il pesce”, concordiamo. Ci alterniamo nelle discese, oltre agli squali, un barracuda solitario, un piccolo tonno dente di cane. Le condizioni però sono quelle giuste.
Ecco di colpo al centro della scena comparire un marlin. Un meraviglioso e possente blue marlin acceso di striature luminescenti. E’ attratto dal flasher e vi compie una piroetta attorno, quasi strusciandolo. Prendo aria, scendo, lo vedo allontanarsi, poi virare su se stesso per tornare a studiare il flasher, ma ad una certa distanza. Poi allontanarsi di nuovo e di nuovo voltarsi ancora per venire verso di me. Lo stimo sui 150 chili e, mentre si gira per allontanarsi, forse definitivamente, stendo le braccia e premo il grilletto. Tiro lungo, ma non impossibile. L’asta impatta sul fianco ma la slip-tip non penetra. Il pesce fugge, io risalgo tirandomi dietro tutto quel teak e faccio spallucce alla sagoma controluce del compagno di pesca.
“Lo avevo visto praticamente a bordo” dirà Davie, che si è gustato la scena dall’alto. Entrambi abbiamo notato una cicatrice sul fianco del pesce. Probabilmente lo stesso pesce sparato il mese prima, sotto gli occhi di Davie, da un pescatore russo proprio su questo pinnacolo. Mi chiedo se l’istinto di conservazione aiuterà il marlin a tenere le distanze dal prossimo pescatore di turno, o se la curiosità, la territorialità porteranno il pesce a concedere una terza occasione.
La giornata si conclude qui. C’è da fare tanto mare per tornare a terra, con un vento che, dispettoso, ha cambiato direzione e quindi ce lo abbiamo nuovamente di prua. Si balla. Stanchi ma appagati, tra una chiacchiera e l’altra facciamo fuori un casco di banane condite dal salino delle ondate. L’indomani si sciacquano le attrezzature, si fanno i bagagli, sarà spiaggia e relax prima del rientro a casa.
Craig Scott - la triste storia.
Una strana febbre, erroneamente ritenuta effetto collaterale dell’ennesimo trattamento chemio, lo aveva spinto ad un affrettato rimpatrio in Sud Africa. Poi la diagnosi intempestiva: malaria. Il coma. Una morte evitabile con una terapia di routine.
Un passato agonistico nella nazionale Sudafricana di pesca subacquea, Craig soffriva da molti anni di una forma di leucemia. Aveva tuttavia deciso di combattere spavaldamente la malattia, dedicandosi totalmente alla sua passione, fondando Orca-Sakatia, punto di riferimento per gli appassionati di pesca estrema.
Resta a Sakatia solo il “Club”, un bungalow appartato, vero tempio della pesca, animato oramai solo dai ricordi evocati dalle foto di impressionanti catture. Un inserviente del lodge che spolvera e riordina di tanto in tanto una quantità industriale di attrezzature che hanno accompagnato schiere di appassionati giunti qui dall’altro capo del mondo. Libri, riviste, minuteria e diavolerie tipiche del pescasub-bricolage. Atmosfera irreale.
Sul patio l’amaca dove vorresti sedere a gustarti una birra dopo una giornata passata a pesca. Da qui lo sguardo va al mare e trova lo scafo azzurro di Orca, barca ben nota ai pescatori dell’arcipelago, ormeggiata a pochi metri dal limite delle mangrovie, spostata, ora qua ora la, dal ritmo incessante delle maree.
Amaro accettare il fatto che, solo qualche giorno prima, quella voce sottile dal tipico accento sudafricano mi stuzzicava al telefono mentre programmavamo le uscite da fare.
Riposa in pace Craig.
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Un'altro di noi se ne è andato e ora se la sta godendo chissà dove.
RispondiEliminaRiposa in pace.
Sicuramente come nel tuo caso anche lui avrà centinaia di storie di pesca affascinanti da raccontare a chi come lui è passato a miglior vita. R.I.P.
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