Tu che conosci il mare portami via
con te/dove la gente veste solo dei suoi colori/tu che conosci il mare, portami via con te dove la notte
è chiara e il cielo è più vicino/tu che conosci il mare e le stelle come guida/prendi
quel timone e insegnami la via… (Nomadi)
Quando arrivo al mare, avverto immediatamente il profumo di
liquerizia selvatica, al quale si mescola quello di pino marittimo che si fa più intenso
in primavera grazie ai suoi germogli. Le
alghe, il salmastro, i gigli di mare… profumi che hanno un’anima. Un colore lo
guardi e ti delizia, invece un profumo lo senti e al profumo associ il colore
che ti piace, anche a occhi chiusi. Meraviglia delle meraviglie che sa percepire
solo chi ha la sensibilità adatta.
Sono
passati tanti anni e il mare è stato per me una scuola, mi ha sostenuto nei
momenti difficili di vita, anche economicamente. Da ragazzo, all’età di 14
anni, dopo la scuola dell’obbligo, i
miei decisero che sarei diventato un meccanico di automobili e cominciai a
lavorare da subito. A quella età non si sa mai esattamente cosa fare da grande
e io, seppur appassionato di qualunque cosa si potesse fare con le mani e la
creatività, non ne ero completamente convinto, ma è chiaro che ai miei ciò non
interessava molto. Iniziai nell’officina
meccanica che poi sarebbe divenuta
quella di famiglia e avevo come superiori: il datore di lavoro, mio fratello apprendista
e uno stronzo che aveva evidentemente subìto angherie da qualche suo precedente
superiore e la voleva far pagare a me,
sottoposto. Fu per me un periodaccio del quale conservo solo brutti ricordi,
tanto brutti che smisi di fare quel mestiere per fare l’apprendista
parrucchiere (mestiere anche quello non deciso da me). Lo stipendio allora per
un apprendista, era trentacinquemila lire
al mese, che corrispondono agli odierni diciassette euro, che davo in casa e a me non rimaneva mai
nulla se non le mance che le generose clienti lasciavano. Avevo la passione per la chitarra,
una moto da mantenere e tanti capelli,
ciò che in effetti mancava erano i soldi, quindi, grazie al mio sport, pescavo
e vendevo le mie prede.
L’estate non c’erano grossi problemi: ora pesci, ora cozze o
vongole, tutto senza muta. Così guadagnavo
qualche lira per campare dignitosamente, riuscendo a offrire anche un gelato alla
fidanzatina di turno. Per quello che riguardava l’inverno la musica era
diversa, provai anche a progettare una muta fatta con camere d’aria ma fu un
fiasco totale.
La mia prima attrezzatura fu una muta Technisub
da 3 millimetri con cerniera sternale. Scoprii dopo averla acquistata che era
buona solo per l’estate, senza protezioni né cappuccio per la testa, tanto meno
guanti e calzari. L’amico che me la vendette assicurò che andava benissimo per
l’inverno. Oggi non è più mio amico, ovviamente. Dato che comunque il pesce
avrei dovuto pescarlo e venderlo sempre, tutto l’anno, ci provai comunque. Era dicembre
e arrivai in moto a Foce Verde, località mia preferita per la caccia subacquea.
Mi spogliai velocemente e infilai con
qualche difficoltà, ma tanto orgoglio, la muta pagata a rate trentacinquemila
lire che negli anni Settanta erano una cifra considerevole. In quel periodo, branchi
di spigole giganti e grosse orate affollavano il mare. Entrai in acqua,
tremando ma speranzoso che la cosa migliorasse: dopo cinque minuti purtroppo ero
blu dal freddo. Provai lo stesso a pescare ma il fucile non rimaneva in linea
di mira, sparavo e sbagliavo continuamente i bersagli, seppur di grossa mole.
Il tremore da ipotermia era violento, mi
sconquassava dentro. Rientrai a terra con un polpo gigante al quale avevo
sparato più volte a causa del tremore. Mi rivestii velocemente e non senza difficoltà,
le mie mani avevano perso completamente la sensibilità. indossai il casco e andai a vendere la
preziosa preda, mi sentivo però strano e debole, a casa capii perché: avevo una
febbre da cavallo con una
forte sinusite. Solo dopo dosi massicce
di antibiotici e decine di aereosol il
malanno passò.
Una volta guarito, come al solito, mi misi alla ricerca di
una soluzione al grosso problema che avevo. Pensa e ripensa, risolsi così: la
priorità l’aveva innanzitutto la testa
che era la parte più importante da proteggere, pensai quindi di infilare due
cuffie da piscina una sopra l’altra, questo, mi dissi, avrebbe garantito un
minimo di calore. Sotto la muta da tre millimetri decisi di indossare una maglia di lana e dei mutandoni, di quelli
che si usavano allora nell’esercito,
erano di color carne e lunghi sino alla caviglia. Ai piedi infilai due paia di
calzettoni di lana, sempre di provenienza militare, acquistati insieme alla
maglia e ai mutandoni al mercato
americano, per pochi spiccioli. Alle mani misi guanti di gomma da cucina, rubati
a mia madre, erano però di colore rosa e la mia dignità mi impediva di
indossarli e cosi li rivoltai al contrario, dalla parte interna che era di
colore bianco. Mi ero, con questa strategia, assicurato una quarantina di minuti
di autonomia e di calore che mi avrebbero protetto dal gelo invernale. Pescavo in quei quaranta
gelidi minuti di immersione, tanti pesci e li vendevo ai ristoranti o ai vicini
di casa. Racimolai così una bella cifra che mi permise l’acquisto di una muta Bechaut
da 5 millimetri (anche questa a rate), dura come il cuoio ma “da apnea” cioè senza cerniera. Era nera, zigrinata all’esterno con delle strisce di
tessuto giallo che tenevano insieme i vari pezzi, malamente incollati e
foderata internamente. Con un colpo di fortuna rimediai anche pinne, maschera e
boccaglio professionali: non avrei avuto
più freddo e le cose sarebbero andate molto meglio.
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