sabato 7 febbraio 2015

Dal Libro "Il mio mare" da pag 52 a pag 55

Tu che conosci il mare portami via con te/dove la gente veste solo dei suoi colori/tu che conosci il mare, portami via con te dove la notte è chiara e il cielo è più vicino/tu che conosci il mare e le stelle come guida/prendi quel timone e insegnami la via… (Nomadi)

 

Quando arrivo al mare, avverto immediatamente il profumo di liquerizia selvatica, al quale si mescola  quello di pino marittimo che si fa più intenso  in primavera grazie ai suoi germogli. Le alghe, il salmastro, i gigli di mare… profumi che hanno un’anima. Un colore lo guardi e ti delizia, invece un profumo lo senti e al profumo associ il colore che ti piace, anche a occhi chiusi. Meraviglia delle meraviglie che sa percepire solo chi ha la sensibilità adatta.
Sono passati tanti anni e il mare è stato per me una scuola, mi ha sostenuto nei momenti difficili di vita, anche economicamente. Da ragazzo, all’età di 14 anni,  dopo la scuola dell’obbligo, i miei decisero che sarei diventato un meccanico di automobili e cominciai a lavorare da subito. A quella età non si sa mai esattamente cosa fare da grande e io, seppur appassionato di qualunque cosa si potesse fare con le mani e la creatività, non ne ero completamente convinto, ma è chiaro che ai miei ciò non interessava molto.  Iniziai nell’officina  meccanica che poi sarebbe divenuta quella di famiglia e avevo come superiori: il datore di lavoro, mio fratello apprendista e uno stronzo che aveva evidentemente subìto angherie da qualche suo precedente  superiore e la voleva far pagare a me, sottoposto. Fu per me un periodaccio del quale conservo solo brutti ricordi, tanto brutti che smisi di fare quel mestiere per fare l’apprendista parrucchiere (mestiere anche quello non deciso da me). Lo stipendio allora per un apprendista, era trentacinquemila  lire al mese,  che corrispondono agli odierni  diciassette  euro, che davo in casa e a me non rimaneva mai nulla se non le mance che le generose clienti  lasciavano. Avevo la passione per la chitarra, una moto da mantenere  e tanti capelli, ciò che in effetti mancava erano i soldi, quindi, grazie al mio sport, pescavo e vendevo le mie prede.
 L’estate non c’erano grossi problemi: ora pesci, ora cozze o vongole, tutto senza muta.  Così guadagnavo qualche lira per campare dignitosamente,  riuscendo a offrire anche un gelato alla fidanzatina di turno. Per quello che riguardava l’inverno la musica era diversa, provai anche a progettare una muta fatta con camere d’aria ma fu un fiasco totale.
 La mia prima attrezzatura fu una muta Technisub da 3 millimetri con cerniera sternale. Scoprii dopo averla acquistata che era buona solo per l’estate, senza protezioni né cappuccio per la testa, tanto meno guanti e calzari. L’amico che me la vendette assicurò che andava benissimo per l’inverno. Oggi non è più mio amico, ovviamente. Dato che comunque il pesce avrei dovuto pescarlo e venderlo sempre, tutto l’anno, ci provai comunque. Era dicembre e arrivai in moto a Foce Verde, località mia preferita per la caccia subacquea. Mi spogliai velocemente e  infilai con qualche difficoltà, ma tanto orgoglio, la muta pagata a rate trentacinquemila lire che negli anni Settanta erano una cifra considerevole. In quel periodo, branchi di spigole giganti e grosse orate affollavano il mare. Entrai in acqua, tremando ma speranzoso che la cosa migliorasse: dopo cinque minuti purtroppo ero blu dal freddo. Provai lo stesso a pescare ma il fucile non rimaneva in linea di mira, sparavo e sbagliavo continuamente i bersagli, seppur di grossa mole.
 Il tremore da ipotermia era violento, mi sconquassava dentro. Rientrai a terra con un polpo gigante al quale avevo sparato più volte a causa del tremore. Mi  rivestii velocemente e non senza difficoltà, le mie mani avevano perso completamente la sensibilità.  indossai il casco e andai a vendere la preziosa preda, mi sentivo però strano e debole, a casa capii perché: avevo una febbre da  cavallo con una forte sinusite.  Solo dopo dosi massicce di antibiotici e decine di aereosol  il malanno passò.
Una volta guarito, come al solito, mi misi alla ricerca di una soluzione al grosso problema che avevo. Pensa e ripensa, risolsi così: la priorità l’aveva innanzitutto  la testa che era la parte più importante da proteggere, pensai quindi di infilare due cuffie da piscina una sopra l’altra, questo, mi dissi, avrebbe garantito un minimo di calore. Sotto la muta da tre millimetri decisi di indossare  una maglia di lana e dei mutandoni, di quelli che si usavano allora  nell’esercito, erano di color carne e lunghi sino alla caviglia. Ai piedi infilai due paia di calzettoni di lana, sempre di provenienza militare, acquistati insieme alla maglia e ai mutandoni  al mercato americano, per pochi spiccioli. Alle mani misi guanti di gomma da cucina, rubati a mia madre, erano però di colore rosa e la mia dignità mi impediva di indossarli e cosi li rivoltai al contrario, dalla parte interna che era di colore bianco. Mi ero, con questa strategia, assicurato una quarantina di minuti di autonomia e di calore che mi avrebbero  protetto dal gelo invernale. Pescavo in quei quaranta gelidi minuti di immersione, tanti pesci e li vendevo ai ristoranti o ai vicini di casa. Racimolai così una bella cifra che mi permise l’acquisto di una muta Bechaut da 5 millimetri (anche questa a rate), dura come il cuoio ma “da apnea”  cioè senza cerniera. Era nera,  zigrinata all’esterno con delle strisce di tessuto giallo che tenevano insieme i vari pezzi, malamente incollati e foderata internamente. Con un colpo di fortuna rimediai anche pinne, maschera e boccaglio professionali:  non avrei avuto più freddo e le cose sarebbero andate molto meglio.

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