martedì 20 gennaio 2015

Dal Libro "Il mio Mare" di Sandro Arcieli


Il primo pesce

... Era il 1970 e avevo più o meno 10 anni.
Rovistando in garage saltò fuori un fucile subacqueo, era un tubo lungo in ferro con dentro una molla che scorreva internamente lungo tutta la sua lunghezza. Lo aveva portato a casa mio fratello, egli  in realtà non faceva pesca subacquea, glielo regalarono e basta. Lo girai e rigirai, in realtà non sapevo come si usasse, la logica voleva che la freccia fosse diretta in avanti, avevo intuito che la molla serviva a catturare e sprigionare la forza propulsiva e a scagliare la freccia in avanti. Mi sfuggiva però il funzionamento del meccanismo. Pensavo vagamente al mio fuciletto di legno che avevo costruito anni prima, di quelli che scagliano un lungo elastico ricavato da anelli di camera d’aria, e come grilletto una o due mollette di legno da bucato, con questa infallibile arma, ci facevo secche un sacco di mosche. Mi feci  coraggio e provai innestando il lungo ferro arrugginito all’imboccatura del tubo di alluminio con al centro l’impugnatura, spinsi dentro ma non si muoveva, allora puntai il ferro con all’estremità una fiocina a tre punte sul terreno, con tutto il peso del mio corpo secco e  spinsi verso il basso, sentii gracchiare, era un rumore di ruggine e ferraglia provocato dalla molla interna che scorreva, TAC! L’asta si era bloccata, ora bisognava scaricare l’arma, come fare? Pensai di mirare a un gatto che mi era antipatico ma era rischioso quindi ripetei l’operazione appena effettuata per caricare l’arma ma al contrario: con il peso del corpo tenevo il fucile, sganciai l’asta con una piccola pressione sul grilletto e mi ritrovai ad essere spinto dalla propulsione della molla, con forza verso l’alto tanto che mollai il fucile che fece un breve volo prima di ricadermi in testa. Tutto a posto, funziona!
Il mattino dopo presi come sempre la maschera, le pinne e avvolsi  l’archibugio subacqueo nell’asciugamano da spiaggia, camuffandolo in maniera che sembrasse un piccolo ombrellone avvolto dal tessuto colorato. Nessuno dei passeggeri del pullman che mi avrebbe portato al mare ci avrebbe fatto caso. Questa volta si faceva sul serio : io, memore delle raccomandazioni dei miei genitori sul maneggio delle armi, coltelli o altro, scelsi per quella mattina di sperimentare l’attrezzo in un posto poco frequentato, guarda caso proprio a Capo Portiere! La spiaggia che io frequentavo con i miei amici purtroppo era affollata, ma non lo era però la scogliera frangiflutti poco distante. Arrivai ed ebbi la fortuna di vedere un sub in azione, aveva un fucile simile al mio ma di colore azzurro e con lo stesso metodo di carica a molla. Notai che faceva un certo movimento e l’asta, che era armata di fiocina con tre cuspidi, rimaneva inserita internamente, con il torso fuori dall’acqua. Incastrava la freccia come io stesso avevo fatto la sera prima, poi poneva l’impugnatura dell’arma sul ginocchio piegato e con forza, spingeva la freccia dentro l’arma… In tutta fretta indossai maschera e pinne ed entrai in acqua: subito però sentii una voce:
“A regazzi’, ma nun c’hai niente da fa’? Qua ce sto io  e tu te devi sposta’ più in là!”. Lo feci, ma restava una sola piccola porzione di roccia, era pur sempre qualche cosa. Provai subito a caricare il fucile ma invano, ne dedussi che o era troppo lungo lui o troppo corto io! Uscii quindi dall’acqua per nulla scoraggiato, inserii la fiocina, piantai l’arma nella sabbia e con tutto il peso del corpo feci in modo che il fucile potesse caricarsi, uno, due, tre! Nulla, per caricare l’arma, mi servirono più tentativi, il mio sforzo fu però premiato e l’asta rimase inserita esattamente come doveva nel tubo con la molla interna rugginosa e  gracidante, pronta a sfoderare tutta la potenza. Entrai di nuovo in acqua, non so bene che tipo di tecnica sconosciuta di caccia usai, né quanta fortuna ebbi, fatto sta che mi passò davanti una spigola, io premetti il grilletto d’istinto e forse chiusi pure gli occhi, così, senza nemmeno mirare. Piantai l’asta armata di fiocina sullo scoglio sabbioso, al centro di essa c’era la spigola che si dimenava nel continuo moto natatorio ma senza muoversi di un millimetro né avanti né indietro, visto che era inchiodata allo scoglio, con gli occhi di chi è disperato: sembrava guardarmi con la faccia sorpresa, come a dire: “Ma perché proprio io?”. Era la prima volta che uccidevo un

Pontile, 1980
pesce e oggi, a distanza di 40 anni, ne ho ancora nitido il ricordo: ricordo la freccia piantata a metà del corpo, ricordo la sua livrea argentata e mi colpirono due cose: la prima, che i pesci non sanguinano, almeno quel pesce; l’altra, che non battono gli occhi . La spigola, come detto, muoveva solo la coda e la bocca, tutto in un ultimo estremo inutile tentativo di fuggire la morte, poco dopo smise e si arrese. Orgoglioso di quella preda estrassi la fiocina incastrata nel sasso e la sollevai fuori dall’acqua, sembrava avessi in mano uno spiedo con il quale cucinare il pesce stesso. Mentre lo osservavo controluce, vidi sopra il pontile di Capo Portiere una figura che mi teneva d’occhio dall’alto del parapetto, mi guardava fisso, ma dietro c’era il sole e non capivo chi fosse. La forma e la stazza mi erano però familiari, ancora di più la forma delle spalle e della testa: era mio padre. Non ho mai capito come mai si trovasse lì in quel momento, non so se era stato avvisato, ci si trovasse per caso o se mi avesse seguito, ricordo il suo sguardo severo che pian piano si faceva più dolce, sciogliendosi in un sorriso. Aveva capito e si era arreso, aveva accettato in quel momento il fatto di avere un figlio appassionato di mare e pesca subacquea. Il battesimo era compiuto, il mare non mi avrebbe più lasciato E io non avrei più lasciato lui, ora ne ero parte, la mia strada era segnata e con la benedizione di mio padre.

La sera mangiò da solo la spigola, io non la volli, dal mio posto, che  era  a capotavola esattamente di fronte a lui, osservavo i suoi movimenti, il modo che aveva per spolpare la preda, ”’spuzzoliandola” ,diceva lui non tradendo se sue chiare origini napoletane. Lo osservavo con tanto interesse che mi accorsi che dei piccolissimi pezzetti di carne erano rimasti attaccati alla lisca, avrei voluto dirglielo, ma non lo feci, mi piaceva  il modo in cui se  ne nutriva: ne ero stato  il cacciatore. Quella sera io mi nutrii di questo ...
Sandro Arcieli

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